Stati di WhatsApp (WA), gruppi e social network… frecce avvelenate virtuali. Nuove trincee da cui studiare il nemico. Reati informatici e valenza legale dei messaggi nella guerra di stati quotidiana.
Abbiamo imparato che il cellulare ed il computer permettono di fare tutto senza rischi. E non solo contro il covid: le peggiori guerre ora si consumano virtualmente, se non direttamente con messaggi, a colpi di “stati” di WA, con allusioni a insulti più o meno camuffati, visualizzazioni di nascosto, ma con esposizione al pubblico ludibrio; modalità aereo, spunte blu tattiche fino ad arrivare a false identità, profili Facebook creati ad arte per intrappolare il malcapitato e carpirne i comportamenti più biechi.
Tutto si fa con lo smartphone: le persone che non utilizzano le applicazioni di messaggistica e i social network sono sempre di meno e vengono guardate con sconcerto e sospetto.
Dall’avvocato, ora, si va muniti di screenshot e registrazioni. Ma hanno valore nella “guerra di stati”?
E gli “stati” di Wa, in cui viene utilizzata la modalità “sparo nel mucchio”?
La tattica consiste nel tentare di colpire il nemico pubblicando generalmente frasi ad effetto; purtroppo succede che, invece, il dardo avvelenato colpisca persone che non c’entrano nulla, sbagliando completamente l’obiettivo.
A volte invece il fantomatico stato di Whatsapp viene reiteratamente utilizzato per colpire una singola persona specifica, gettando discredito su di lei ed esponendola al pubblico ludibrio.
Lo stesso dicasi in merito a offese lanciate su Facebook o altri social network. Al di là di considerazioni generali in merito alla eleganza della cosa…a livello legale…si può fare?
Spesso la sensazione è di completa deregolamentazione, come se nel mondo Internet vigesse una sorta di far west in cui ognuno può liberamente scrivere qualsiasi cosa, anche palesemente falsa o offensiva.
Lo stesso dicasi per i cosiddetti “stati di WhatsApp”, su cui si è recentemente espressa la Cassazione penale con sentenza n. 33219 dell’8 settembre 2021.
Cosa dice la legge in merito
Ebbene… integra il reato di diffamazione aggravata la pubblicazione di stati lesivi della reputazione di qualcuno, anche con l’assenza di una prova stringente che i messaggi fossero rivolti alla persona offesa e che fossero realmente visionabili da tutti i contatti presenti nella rubrica.
Infatti nemmeno la possibilità che lo “stato” fosse nascosto ad alcune persone ha convinto la Corte: per la Cassazione è improbabile che una persona nasconda lo stato a tutti i contatti tranne la vittima.
Tale reato si configurerebbe anche in caso di invio di un messaggio su una chat di gruppo o di un post condiviso sulla propria bacheca di Facebook (come statuito più volte dalla Cassazione), e ciò per il potenziale offensivo visibile da più persone.
La diffamazione aggravata è disciplinata dal terzo comma dell’articolo 595 del codice penale, il quale prevede che “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”.
Per quanto concerne, invece, il valore legale dei messaggi, che siano sms, di WA o di Telegram, è ormai pacifico che sono considerati veri e propri documenti informatici, i quali fanno piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti ed alle cose medesime.
L’art. 2719 c.c. dispone inoltre che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta. Senza entrare nel merito di come si possono produrre le conversazioni (e gli audio) di WA in giudizio, è bene sapere che addirittura le emoticons utilizzate per enfatizzare i messaggi inviati con faccine e, magari, gestacci, possono avere una loro rilevanza ai fini di una valutazione complessiva da parte del Giudice.
Ma anche spiare le conversazioni di altri è reato, sia impossessandosi dei supporti informatici altrui che entrandovi in modo abusivo, e lo stesso vale, oltre che per le applicazioni di messaggistica, anche per le mail e gli account dei social network, dove, spesso, si trovano anche dati particolari coperti dalla normativa relativa alla privacy.
Gli innocenti computer o il telefonino, che ci forniscono così velocemente la ricetta del pandoro, possono tramutarsi in armi micidiali per gli altri e per noi stessi.
Dunque invece di lasciarsi andare a questa “guerra di stati”, meglio ancora una volta suonare il campanello del “nemico” e cercare di trovare una soluzione. Guardandosi negli occhi. Può darsi che tutto finisca in un realissimo e concretissimo abbraccio di cessate il fuoco! Buon Natale a tutti.
Avv. Beatrice Perini – Blog